Lo stagno di Goethe – ETS
in collaborazione con
Unione culturale Franco Antonicelli
Il laboratorio di creazione pubblica “STORYPLAYING per una STORIA dell’Italia di OGGI”, dedicato ad attrici, attori e cittadinanza (studenti, insegnanti, tecniche/i, studiose/i, operai/e, impiegate/i, commercianti, artigiane/i ecc.), si ispira ai principi dello STORYPLAYING e usa come motore iniziale un’azione di TEATRO DI RICICLO®
Il laboratorio persegue una considerazione critica della storia, che usi sguardi ampi e pensieri articolati.
Ha cadenza settimanale (il mercoledì), e si inaugura con due serate all’Unione culturale Franco Antonicelli a maggio e prosegue nell’autunno 2022.
Nella prima serata (4 maggio 2022, h 20.45, ingresso libero, Unione culturale Franco Antonicelli, Via Cesare Battisti 4b, Torino) Leonardo Casalino (Université Grenoble Alpes) traccia la storia della Repubblica dal 2014 (anno in cui terminava la vicenda evocata dallo spettacolo Carlo, Ettore, Maria e la Repubblica – Storia d’Italia dal 1945 a oggi) ai giorni nostri, con richiami a vicende del secolo scorso (in Italia e nel mondo) utili per la comprensione del presente. Nella seconda parte della serata, si da corso al TEATRO DI RICICLO® dello spettacolo Carlo, Ettore, Maria e la Repubblica – Storia d’Italia dal 1945 a oggi (di Leonardo Casalino e Marco Gobetti). Simona Gallo, Marco Gobetti e Beppe Turletti ne evocano il debutto e la tournée, ciascuno dal proprio punto di vista operativo: allestimento, drammaturgia e recitazione, musiche.
Nella seconda serata (11 maggio 2022, h 20.45, ingresso libero, Unione culturale Franco Antonicelli, Via Cesare Battisti 4b, Torino) Claudio Panella (Università di Torino / Unione culturale Franco Antonicelli) e Silvia Nugara (giornalista freelance e ricercatrice indipendente), oltre a suggerire contenuti possibili per il laboratorio (anche, eventualmente, sviluppando suggestioni nate dalla prima serata), interpretano, illustrano e dibattono sul concetto di “storyplaying”, insieme al pubblico e ad attrici/attori, tecniche/i, organizzatrici/ori, insegnanti e studentesse/i invitate; fra tutte/i, assicurano il loro intervento: Chiara Cardea, Silvia Mercuriati, Cristina Arnone, Domenico Castaldo, Diego Coscia …
Microfono aperto: chiunque potrà aggiungere suggestioni sul concetto di storyplaying e/o esprimere la propria idea di teatro, di lavoro, di scuola, di πόλις; e/o suggerire pensieri e fatti degni di nota di qualunque epoca, da prendere in considerazione per raccontare anche quest’ultimo decennio di storia nazionale, sino a scandagliare il presente. Gli interventi saranno registrati e forniranno una ulteriore base per il lavoro successivo.
Nei successivi incontri a cadenza mensile, coloro che realizzarono lo spettacolo Carlo, Ettore, Maria e la Repubblica – Storia d’Italia dal 1945 – dopo averlo “fatto a pezzi” con il “TEATRO DI RICICLO®” – si mettono a disposizione delle/i partecipanti insieme ad altri artiste/i, studiose/i e drammaturghe/i. A chi partecipa si chiede di accettare il rischio di fallire creando pubblicamente, seguendo un percorso di formazione (aperto al resto della cittadinanza in ogni sua fase) e di scambio di conoscenze: così da reinventare lo spettacolo stesso, facendone proseguire sino a oggi la vicenda di base, che si fermava al 2014, e innervando la parte precedente con nuovi rivoli narrativi.
Scopo ultimo è fare germogliare un “TEATRO DI RICICLO®” a grappolo, riscritto e interpretato da cittadine/i, drammaturghe/i, storiche/i, letterate/i e attrici/attori autonome/i ma cooperanti, in un proficuo confronto fra dilettantismo e professionismo.
Ne risulteranno nuovi spettacoli (agili e realizzabili ovunque) riguardanti la storia “piccola e grande” degli ultimi 80 anni, che – in forma di monologhi, dialoghi o “lezioni recitate” – sviluppino i temi portanti della vicenda originaria, reinventandoli anche alla luce della storia del luogo in cui il laboratorio avviene, l’Unione culturale, dei luoghi e dei ricordi legati a ciascun partecipante e delle suggestioni derivanti da vicende – in ogni parte del mondo – contemporanee al laboratorio; temi di partenza possibili:
– la “rivoluzione dell’abitare” (con cui si conclude il copione originario, tramite un tentativo in merito da parte di Carlo, figlio di Ettore e Maria);
– il riscatto sociale e la giustizia sociale, con particolare riferimento al mondo femminile (a partire dalla figura di Maria e con derive verso figure femminili della storia, del teatro e della letteratura);
– la paura, la morte, il dolore, la scelta e i metodi per decifrarle;
– la lingua come motore di sostenibilità umana e culturale (“conoscere le cose e il modo di raccontarle”, a partire dalla passione per i libri che accomuna i tre protagonisti e dall'”evaporare in un libro” finale di Carlo);
– migrazioni e rivoluzione dei punti cardinali (anche a partire dall’avventura di Carlo, nel sottofinale dello spettacolo oggetto di riciclo);
– il lavoro (anche a partire dalla figura di Ettore, un altro dei protagonisti dello spettacolo riciclato).
– l’autonomia, la responsabilità e la coscienza critica come caratteristiche di una cittadinanza capace di avere un rapporto maturo con il potere politico.
SINOSSI DELLO SPETTACOLO “FATTO A PEZZI” (Carlo, Ettore, Maria e la Repubblica – Storia d’Italia dal 1945 a oggi):
La vita di una famiglia, attraverso gli ultimi 70 anni della nostra storia nazionale. Ettore, il padre: è un ex partigiano che, finita la guerra, vive ricattando gli ex fascisti, pistola alla mano. Maria, la madre: quando Ettore la incontra, nel 1946, fa la prostituta in una casa chiusa di Torino. Il loro amore, la passione di Maria per il cinema e la letteratura, le loro lotte, i loro vecchi mestieri e quelli nuovi, il loro riscatto sociale… Una storia piccola e paradigmatica, però, del tentativo raccontato dalla grande storia, di formare una società civile capace di un rapporto maturo con il potere politico. Che cosa resta di quel tentativo? La risposta spetta a Carlo, figlio di Ettore e Maria, la cui vicenda affonda le radici nel presente che viviamo e nei settant’anni che lo precedono, con un particolare riferimento alla Resistenza e al tema delle migrazioni. Un intreccio di biografie di pura invenzione che si intersecano alle vicende della Repubblica Italiana. Un racconto che, evocando la storia d’Italia dal 1945 a oggi, intende farsi strumento di ricordo, ma anche di apprendimento, sogno, coraggio, pensiero e azione.
____________________________________________________________
Cosa sono lo STORYPLAYING e il TEATRO DI RICICLO®?
TEATRO DI RICICLO®
Per “teatro di riciclo” si intende l’azione di un attore tesa a evocare una replica precisa o un insieme di repliche trascorse di uno spettacolo cui abbia preso parte o di cui sia stato spettatore: la vicenda e le immagini dello spettacolo rivivono, così, profondamente contaminate dalla narrazione dei meccanismi teatrali e di tutto ciò che è riconducibile al rapporto tra attori, spazi e pubblici incontrati.
Il “riciclo” del teatro già stato non intende essere surrogato del teatro stesso; bensì concentrato rarefatto, essenza che ne sublima la mobile immanenza, la magia: l’”altrove rimanendo”. Travaso di generi, base concreta per l’utopia.
STORYPLAYING
In uno scritto di aprile 2020 Marco Gobetti provava a ragionare sulle possibilità di contaminazione del sistema teatrale nel presente, mettendo a confronto fra loro alcune contaminazioni avvenute nel secolo scorso. Partiva da un’affermazione di Carmelo Bene (al Teatro Argentina di Roma, il 20 gennaio 1984, durante un seminario organizzato dal Centro Teatro Ateneo dell’Università “La Sapienza” diretto da Ferruccio Marotti – video integrale della giornata: https://www.youtube.com/watch?v=6-RIcECZ-4I) in risposta alla domanda di uno studente che citava, da La repubblica di Platone, un’invettiva contro i “pantomimi, così abili a imitare qualunque cosa”; pantomimi che occorreva cacciare dalla repubblica, dove si dovevano accettare solo i “più aspri e severi poeti e cantori di storie”. La domanda si concludeva appunto con una richiesta a Carmelo Bene: gli si domandava se, in quanto attore, reputasse di avere diritto a “restare nella repubblica”.
Con la sua risposta, in primis, Carmelo Bene tocca un nervo del sistema teatrale che, allora come oggi è scoperto. È un sistema che, in modo variabile, ha incoraggiato e incoraggia il fiorire di “attori fini a se stessi”: il malanno sta – anche – nell’istituzionalizzazione del teatro, pratica utile a rigor di logica, visto che lo lega al servizio pubblico con cui lo Stato soddisfa bisogni della cittadinanza; ma che al contempo è dannosa per il teatro stesso, se recinta (quando non arrivi addirittura a castrare) ogni sua componente che vada a tangere i terreni del magico, dell’invisibile, dell’avventura, dell’irrazionalità, dell’empatia, di tutto ciò che superi il limite posto dai concetti di mera rappresentazione e di prodotto. Il teatro è innanzi tutto avvenimento e, in quanto tale, di volta in volta proficuamente caduco, carico d’altrove, intriso di provvisorietà e scevro di calcolo, oltre che di individualistici compiacimenti.
In secondo luogo, la risposta di Carmelo Bene è utile perché – nel sottolineare la responsabilità forte di chi lo fa, il teatro – dipinge un sistema che, pur affetto del malanno di cui sopra (esemplificabile con «l’attore fine a se stesso») risulta positivamente contaminato, quasi a macchia di leopardo, al suo interno; ed è contaminato da parte di attori che, sì, sono fra loro estremamente diversi (ciascuno ha chiaramente il suo teatro) ma che, tutti – stando al pensiero espresso da C.B. – sono compresi sotto un minimo comune denominatore: ognuno di loro «ha un mondo; E POI, è ANCHE un attore». E ancora: «Tutti costoro sono degli operatori culturali. Non attori», «Un’altra cultura», hanno «Un’idea di teatro». Il contrario, insomma dell’«attore fine a se stesso».
Nello scritto di Gobetti, prima di analizzare contaminazioni del sistema avvenute nel secolo scorso (attingendo soprattutto a pensieri e racconti di Gian Renzo Morteo e Giovanni Moretti), si puntualizzava cosa si possa intendere con il concetto di contaminazione del sistema: “un teatro” contamina il sistema entro cui avviene quando riconosce e affronta i rischi di snaturamento procurati dalle caratteristiche del sistema stesso, cercando di affermare con l’azione l’idea che lo muove, nonostante gli ostacoli che incontra; la contaminazione può essere, con tutte le possibili gradazioni intermedie, da inconsapevole a consapevole.
L’analisi dettagliata di alcune forme di contaminazione del sistema teatrale nel secolo scorso (dilettantismo-professionismo, decentramento, animazione, libera espressione…), evidenziava come questi “teatri” si fondassero soprattutto su un doppio principio essenziale: la dimensione dell’avventura e il raggiungimento della comunicazione tramite la frequentazione del linguaggio: teatri che non pretendano di essere compiuti per affrontare incontri, ma che si compiano tramite gli incontri; e portava infine ad affermare che:
– l’istituzionalizzazione delle esperienze teatrali rischia di castrarne anche le eventuali potenzialità contaminanti e di favorire e promuovere, nella maggior parte dei casi, l’attore che non ha un mondo, il mero esecutore, che non si domanda neppure quale cultura lo circondi;
– per altro verso, l’attore «che ha un mondo; e poi, è anche attore» riversa quel mondo nel “fare” il suo teatro, e viceversa; e se non si riconosce nel sistema e/o nel/nei movimenti culturali che lo circondano, sente il bisogno di creare un suo movimento culturale. E lo fa perché, sentendo di avere “un’altra cultura”, ne ha le capacità o comunque pratica con sana incoscienza l’utopia che lo porta a ottenerle. «È un operatore culturale» direbbe Carmelo Bene; «l’attore è uno che si compromette» direbbe Giovanni Moretti; «la soluzione sempre fuori dal sistema» direbbe Gian Renzo Morteo.
Per quanto riguarda l’oggi, possiamo individuare un “termometro di crisi”. Non è certo l’unico, ma ci limiteremo, qui, a esaminare questo. È annidato nel linguaggio.
Si fa grande uso, ovunque, del termine storytelling.
Nella voce dedicatagli dal vocabolario Treccani, lo storytelling è definito: “Affabulazione, arte di scrivere o raccontare storie catturando l’attenzione e l’interesse del pubblico”. Accompagnano poi la dicitura “Dall’ingl. storytelling (‘narrazione di storie’)”, alcune citazioni da testate nazionali, che ne attestano la diffusione sin dal 1990: diffusione che, se ci si attiene alla natura delle citazioni stesse, parrebbe doversi intendere limitata all’ambito teatrale o comunque strettamente spettacolare.
Che la narrazione, soprattutto orale, abbia a che fare con il teatro e lo spettacolo, d’altronde, è dato certo: la narrazione, in primis, incarna quella complessa elementarità che fa del teatro «la cellula primordiale dello spettacolo».
Digitando poi storytelling nei motori di ricerca più diffusi in rete, se ne trovano svariate definizioni, che tutte proprio rimandano all’atto del narrare, sia orale che scritto, con un focus particolare, però, sulla sua efficacia e sulle tecniche utilizzate per ottenerla; in percentuale, poi, stravincono i siti che lo abbinano ad attività di tipo industriale, dipingendo quella sua stessa efficacia come essenziale per accrescerne la resa, anche in termini commerciali.
Lo storytelling può farlo chiunque e può essere oggetto di scambi formativi aldilà degli ambiti artistici, parrebbe di capire. Che si tratti di una nuova forma di «libera espressione»? Non proprio. Negli ultimi tempi anche molti teatranti, soprattutto nelle loro proposte di corsi (ma anche nel caso di occasioni spettacolari), utilizzano il termine storytelling; e, già solo da un’indagine sommaria, balza agli occhi il fatto che, almeno nella maggior parte dei casi, provano semplicemente a “vendere tecniche”, spesso garantite come infallibili. Docenti specializzati e sicuri per formare infallibili specialisti del domani.
Possiamo ipotizzare che il potenziale venefico dell’istituzionalizzazione abbia fatto scuola e abbia instillato in ogni anello della catena sociale, culturale e industriale la vocazione a fare proliferare gli “attori fini a sé stessi”, in nome di un serissimo neoliberismo artistico.
Propongo, anch’io in modo serissimo, la sostituzione del vocabolo, laddove i fatti o le vocazioni ad agire lo permettano: storyplaying al posto di storytelling. Curiosamente e per ironia della sorte, il termine storyplaying si trova ora in rete riferito soprattutto ad applicazioni che fanno interagire lo storytelling con i videogiochi; noi intendiamo usarlo anche con altre accezioni, riferendoci per intero alla poli-semanticità del verbo “to play”.
Non si tratta solamente di trovare una tecnica utile a raccontare una storia, la storia e le storie: una modalità di racconto dall’”effetto garantito”. Si tratta di cercare, sì, “il modo per raccontare ed evocare – o far raccontare/evocare – le cose” (e in quest’affermazione, davvero, può rientrare qualunque categoria dello spettacolo e della formazione; e qualunque corrente o avventura artistica, qualunque), ma di farlo mediante una precisa assunzione di responsabilità, che ci spinga a investire in progetti cangianti, affetti da frenetiche pulsioni autorigeneranti e da un colorato erotismo libertario, nel quale confluiscano il teatro, le altre arti, la didattica, la storia e le scienze in genere.
Reti di azioni che, partendo da nuclei minimi di creazioni formalizzate, non siano totalmente tracciabili nell’avventuroso evolversi dei loro esiti: azioni anche istituzionali, ma mai “istituzionalizzate”, quindi difficilmente intaccabili in ogni loro componente che, in quanto intrecciata a esperienze teatrali, vada a tangere i terreni del magico, dell’invisibile, dell’avventura, dell’irrazionalità, dell’empatia, di tutto ciò che superi il limite posto dai concetti di mera rappresentazione e di prodotto.
Nel nostro storyplaying occorrerebbero allora arcipelaghi contaminanti non mappabili, ma consapevoli e cercati. E non basati su capillarità geografica o su scambi produttivi/distributivi; ma sulla base di progettualità che promuovano autonomie interne e che facciano ciascuna capo a un movimento culturale condiviso, cercato o consolidato che sia (valgono, qui, tutte le fasi temporali intermedie).
In tali res publicae volatili dunque, gli operatori culturali, ancor prima della consapevolezza riguardo agli effetti possibili della propria azione contaminante, faranno valere la consapevolezza del proprio denominatore comune.
Nei “nuovi arcipelaghi” non basterà, insomma, la coscienza dei singoli riguardo alla capacità contaminante del loro «avere un mondo e poi» essere «anche attori»; gli arcipelaghi contaminanti varranno se ogni isola di ciascun arcipelago – e ogni nave che farà la spola fra loro – sarà forte di un minimo denominatore comune cercato che, noto a tutti gli attori, abbia la mobilità necessaria per rigenerarsi in continuazione e difendersi dai rischi dell’istituzionalizzazione: un movimento culturale condiviso e compartecipato, insomma.
Si tratta di elaborare idee per un teatro, o meglio per più teatri che assumano funzione contaminante e diventino strumento e motore di moti culturali ampi, eterogenei, avventurosi e trasversali: di intelligenti disordini; e di gettare le basi per la nascita di una nuova generazione di attrici e attori, che siano “allenati” all’avventura e che innervino il proprio percorso con nuove, sincere “idee di teatro”: frutto non certo di pretenziose ricette, ma di pratiche e pensieri autonomi.
Principi imprescindibili saranno la creazione (o l’integrazione, laddove se ne incontrino) di stabilità provvisorie e la valorizzazione delle autonomie e delle difficoltà, da trasformarsi in opportunità.
E se il termometro fosse fallace e non ci fosse alcuna crisi cui occorra reagire? Non importa, valgono anche le crisi sognate, se possono diventare opportunità di riflessione e trasformazione. Ipotesi di trasformazione. […]