L’idea secondo cui il teatro, in quanto “palestra di empatia”, può generare mutui appoggi consapevoli, frutto di sentite assunzioni di responsabilità; e influire, così, sui meccanismi di solidarietà sociale, scatenando dinamiche mutualistiche condivise con i pubblici via via incontrati.
A fine gennaio 2020, in pieno “lockdown” per emergenza epidemica, tutti gli spettacoli erano vietati all’aperto o al chiuso che fossero – e già in “zona gialla” o “arancione” oltre che in zona “rossa”; ma l’arte di strada, a Torino, era consentita. Con tanto di possibilità di prenotare gli spazi su apposita app istituzionale. Nacque così un progetto articolato su strada, con l’aiuto logistico, pratico e promozionale dell’Unione culturale Franco Antonicelli e di Fondazione Enrico Eandi; a fine anno sarebbe arrivato anche il sostegno di Regione Piemonte. Un esempio di contaminazione del sistema: attori assunti e pagati che vanno su strada con un’offerta antologica di Teatro di riciclo® e di Strad-rama (così avveniva in quella prima fase) e scendono a patti con il pubblico, concordando di volta in volta – pure sulla base della reciproca disposizione d’animo e delle condizioni meteorologiche – spettacolo e durata. L’esperimento, che accadeva alla 13.00 e alle 17.00 di ogni mercoledì, nella centrale piazza Carignano, a Torino, ebbe un successo insperato: in febbraio alcune insegnanti presenti fra il pubblico giunsero persino a farsi “agitatrici culturali”, procurando la partecipazione di decine di studenti di un Istituto tecnico e di un CPIA cittadini.
Ma, soprattutto, nacque la “prosa su strada per un teatro solidale”. Era l’inizio di febbraio quando i camion della nettezza urbana requisirono e mandarono al macero coperte, cartoni e ogni altra masserizia delle persone che vivevano sotto i portici di una via poco lontano da piazza Carignano; nel frattempo, i vigili provvedevano a cacciare gli ospiti indesiderati: dove, non importava. Bastava che scomparissero.
La programmazione del mercoledì si adeguò a ciò che era accaduto: fu calendarizzato il “riciclo” che evocava le prove e il debutto al Piccolo Teatro di Milano di Io e Matteo (di Annalisa De Lucia, con la regia di Leo Muscato, risalente a fine 2000): il soliloquio ininterrotto di un senzatetto verso Matteo, suo amico inseparabile. Tutto l’incasso sarebbe stato utilizzato per aiutare i senzatetto, con modalità che si sarebbero concordate con il pubblico. Alla prima si presentò una grande quantità di spettatori, che crebbe durante la replica: alla fine, caddero nel cappello quattrocento euro. Nacque una rete autogestita di persone che, grazie all’iniziativa di una spettatrice, la sera dopo distribuì in bicicletta ai senzatetto coperte e piumoni che comperammo con una parte delle offerte. E via così, una replica dopo l’altra, con altre azioni e sostegni ad associazioni e realtà che già operavano direttamente per aiutare i senzatetto e non solo.
Alla fine di ogni replica Marco Gobetti raccontava di un volume che Pëtr Alekseevič Kropotkin scrisse più di un secolo fa, Il mutuo appoggio. Un fattore dell’evoluzione, nel quale ribaltava l’interpretazione più diffusa della teoria darwiniana e dimostrava come l’evoluzione degli animali, uomo compreso, non si debba a una dura lotta in cui vince sempre il più forte; ma come sia invece l’aiuto reciproco – il mutuo appoggio – il motore del processo evolutivo. Fra gli snodi geniali del suo argomentare, figura l’esempio delle formiche: ogni formica mangia sempre il doppio di quello che le occorre per sfamarsi e il superfluo va a finire in un secondo esofago; quindi, va a piazzarsi a una delle entrate del formicaio e appena giunge una formica stanca dal lavoro o da una guerra, rigurgita la riserva di cibo, perché sente sulla propria pelle la fame dell’altra formica. Prova empatia.
“Dall’empatia nasce lo slancio solidale e dallo slancio solidale nasce il mutuo appoggio”, scriveva Kropotkin.
Cos’altro è se non empatia ciò che nasce, nel migliore dei casi, dal rapporto non catalogabile, non governabile, e non prevedibile fra attori e pubblico in uno stesso tempo e in uno stesso spazio?
Allora, se il rapporto fra attore e pubblico è ascrivibile al concetto di empatia, al sentire sulla propria pelle ciò che accade o giunge nella mente a un’altra persona in uno spazio condiviso, o – per citare Artaud – al «sentire corpi d’uomini e di donne, dico corpi, tremare e volgersi all’unisono con il mio»; se questo è, allora il teatro può farsi palestra di empatia.
Insomma, il teatro può influire pure direttamente sui meccanismi di solidarietà sociale, scatenando dinamiche mutualistiche condivise con i pubblici via via incontrati. In quanto palestra di empatia, può generare mutui appoggi consapevoli, frutto di sentite assunzioni di responsabilità: la solidarietà. Il contrario della carità, che è gerarchica.
Il concetto di “palestra di empatia” ha da allora accompagnato il nostro teatro, che ogni volta tenta, in qualche modo, di farsi “solidale”.
L’idea sottesa è pure quella che i lavoratori dello spettacolo – di concerto con il resto della cittadinanza – possano solidarizzare non solo fra loro, ma con ogni altra categoria di lavoratori ascrivibile alla classe del proletariato contemporaneo (le/i braccianti – dei campi, degli ospedali, delle rsa, della scuola, delle fabbriche, della grande distribuzione, della logistica, ecc – e chiunque abbia reddito da lavoro che stia sotto una certa soglia); e con ogni categoria sociale per la quale si possano verificare difficoltà o addirittura impossibilità nell’esercizio dei diritti costituzionali, a cominciare da quelli imprescindibili e inalienabili.
Una “sensibilità larga”, insomma, capace di abbracciarne e nutrirne ogni altra necessaria (a cominciare da quella artistica), forse potrebbe portare fortuna e concorrere a costruire felicità consapevoli per tanti.
Resoconto della prima fase di prosa solidale su strada, a cura di Unione culturale Franco Antonicelli