G. W. Goethe ne La vocazione teatrale di Wilhelm Meister fa dire a un certo punto al protagonista: «… più il teatro verrà purificato, più incontrerà il gusto delle persone intelligenti e raffinate, più andrà allo stesso tempo perdendo la sua originaria efficacia e destinazione. Mi sembra […] di poterlo paragonare a uno stagno che non deve contenere soltanto acqua limpida, ma anche una certa quantità di melma, di alghe e di animaletti perché i pesci e gli uccelli acquatici vi si possano trovar bene».
La sporcizia, l’acqua torbida dello stagno è un’immagine che richiama «l’ipotesi di un teatro fondato sulla relazione fra autori, attori e spettatori e sul loro reciproco condizionamento» (per usare parole di Giovanni Moretti); dunque la precarietà, l’avventura, la labilità…
La sporcizia, l’acqua torbida dello stagno è un’immagine che richiama «l’ipotesi di un teatro fondato sulla relazione fra autori, attori e spettatori e sul loro reciproco condizionamento» (per usare parole di Giovanni Moretti); dunque la precarietà, l’avventura, la labilità…
A proposito di labilità, è illuminante la prima pagina di una manciata di fogli inediti dattiloscritti di G. R. Morteo, risalenti a fine anni ’90 del secolo scorso, dal titolo G.R.M. Appunti sull’attore:
≪ “Rappresentare (representer) – scriveva nel 1943 il filosofo francese Henry Gourier in L’essence du theatre – significa rendere presente mediante la presenza”.
Chi ha il compito specifico di compiere tale operazione? Evidentemente l’attore. “Dunque il fatto teatrale è l’attore”. In altre parole, sinteticamente, possiamo dire che il teatro è l’attore, l’attore è il teatro. È infatti questo ‘personaggio’ a rendere il teatro labile e quindi diverso da tutte le altre arti, a sottolinearne il carattere di “accadimento”, a trasformare un testo letterario in spettacolo, un gruppo di persone in pubblico. Al teatro possiamo togliere tutto senza alterarne la natura, ma non possiamo togliere l’attore e, ovviamente, di riflesso, il pubblico. Non è un caso che le critiche, le riserve, le condanne, le polemiche morali e moralistiche, ma anche estetiche, sociali e via dicendo che hanno accompagnato tutta la storia del teatro si siano incentrate proprio sulla figura dell’attore. D’altronde la stessa espressione del Gouhier “rendere presente mediante la presenza” non richiama alla mente qualche cosa di stregonesco?≫
Impossibile non pensare al Prologo dell’Enrico V di Shakespeare e alla sua richiesta finale di aiuto al pubblico: la collaborazione immaginifica da parte del pubblico, invocata da Shakespeare, richiama a modi di fare il teatro che ne incarnino la connaturata labilità (errore/imprevisto come valore, avventura, coraggio, spazio condiviso con il pubblico) e la sua originaria efficacia e destinazione, anche tramite la povertà di mezzi e/o la semplicità di allestimento: balza subito alla mente il fondo melmoso dello stagno.
≪ “Rappresentare (representer) – scriveva nel 1943 il filosofo francese Henry Gourier in L’essence du theatre – significa rendere presente mediante la presenza”.
Chi ha il compito specifico di compiere tale operazione? Evidentemente l’attore. “Dunque il fatto teatrale è l’attore”. In altre parole, sinteticamente, possiamo dire che il teatro è l’attore, l’attore è il teatro. È infatti questo ‘personaggio’ a rendere il teatro labile e quindi diverso da tutte le altre arti, a sottolinearne il carattere di “accadimento”, a trasformare un testo letterario in spettacolo, un gruppo di persone in pubblico. Al teatro possiamo togliere tutto senza alterarne la natura, ma non possiamo togliere l’attore e, ovviamente, di riflesso, il pubblico. Non è un caso che le critiche, le riserve, le condanne, le polemiche morali e moralistiche, ma anche estetiche, sociali e via dicendo che hanno accompagnato tutta la storia del teatro si siano incentrate proprio sulla figura dell’attore. D’altronde la stessa espressione del Gouhier “rendere presente mediante la presenza” non richiama alla mente qualche cosa di stregonesco?≫
Impossibile non pensare al Prologo dell’Enrico V di Shakespeare e alla sua richiesta finale di aiuto al pubblico: la collaborazione immaginifica da parte del pubblico, invocata da Shakespeare, richiama a modi di fare il teatro che ne incarnino la connaturata labilità (errore/imprevisto come valore, avventura, coraggio, spazio condiviso con il pubblico) e la sua originaria efficacia e destinazione, anche tramite la povertà di mezzi e/o la semplicità di allestimento: balza subito alla mente il fondo melmoso dello stagno.
Scriveva ancora Morteo: «Ritengo, in generale, che tutto il teatro (…) debba essere una provocazione fantastica e non un prodotto fantastico. Nulla è più noioso e avvilente di uno spettacolo perfetto, nel senso di chiuso, in quanto esso rende praticamente impossibile, se non a livello contemplativo, la partecipazione del pubblico. L’essenziale è che lo spettacolo possa avvenire nella testa dello spettatore».
Lo spettatore collabora, ma l’attore ha un ruolo preciso, è colui che conduce l’esperimento: a lui deve capitare quel “qualcosa” senza il quale non si innesca magia.
Scriveva Artaud: «Il teatro deve essere considerato il Doppio non della realtà quotidiana, […] ma di un’altra realtà rischiosa e tipica, dove i principi, come delfini, una volta mostrata la testa, si affrettano a reimmergersi nell’oscurità delle acque». Ovvero, «il teatro è il salto del delfino sulla superficie del mare; è il momento in cui ciò che è invisibile, ciò che è al di là, che non si vede, per un attimo appare… e dalla massa dell’acqua, impenetrabile all’occhio, appare per un attimo ciò che è invisibile».
Come fare, però? Ancora Artaud:
«Se sono poeta o attore non lo sono per scrivere o declamare poesie, ma per viverle. Quando recito una poesia non è per essere applaudito, ma per sentire corpi d’uomini e di donne, dico corpi, tremare e volgersi all’unisono con il mio, volgersi come ci si volge dall’ottusa contemplazione del budda seduto, con cosce ben sistemate e sesso gratuito, all’anima, cioè alla materializzazione corporea e reale d’un essere integrale di poesia».
L’empatia. Cercata, con “un teatro”. Quale? Per noi, in questo momento una certa – e mobile – idea di teatro è quella declinabile di volta in volta secondo i principi dello storyplaying. Ma non è una ricetta: è necessario che ciascuno cerchi il proprio teatro. Anche tramite i pensieri di Goethe, Shakespeare, Artaud e Morteo-Gouhier qui sopra esposti, possiamo intuire il carattere “autentico, magico e sociale” del teatro, o meglio dei teatri: un denominatore comune possibile, per un teatro che non perda (richiamando Goethe) “la sua originaria efficacia e destinazione”.
Lo spettatore collabora, ma l’attore ha un ruolo preciso, è colui che conduce l’esperimento: a lui deve capitare quel “qualcosa” senza il quale non si innesca magia.
Scriveva Artaud: «Il teatro deve essere considerato il Doppio non della realtà quotidiana, […] ma di un’altra realtà rischiosa e tipica, dove i principi, come delfini, una volta mostrata la testa, si affrettano a reimmergersi nell’oscurità delle acque». Ovvero, «il teatro è il salto del delfino sulla superficie del mare; è il momento in cui ciò che è invisibile, ciò che è al di là, che non si vede, per un attimo appare… e dalla massa dell’acqua, impenetrabile all’occhio, appare per un attimo ciò che è invisibile».
Come fare, però? Ancora Artaud:
«Se sono poeta o attore non lo sono per scrivere o declamare poesie, ma per viverle. Quando recito una poesia non è per essere applaudito, ma per sentire corpi d’uomini e di donne, dico corpi, tremare e volgersi all’unisono con il mio, volgersi come ci si volge dall’ottusa contemplazione del budda seduto, con cosce ben sistemate e sesso gratuito, all’anima, cioè alla materializzazione corporea e reale d’un essere integrale di poesia».
L’empatia. Cercata, con “un teatro”. Quale? Per noi, in questo momento una certa – e mobile – idea di teatro è quella declinabile di volta in volta secondo i principi dello storyplaying. Ma non è una ricetta: è necessario che ciascuno cerchi il proprio teatro. Anche tramite i pensieri di Goethe, Shakespeare, Artaud e Morteo-Gouhier qui sopra esposti, possiamo intuire il carattere “autentico, magico e sociale” del teatro, o meglio dei teatri: un denominatore comune possibile, per un teatro che non perda (richiamando Goethe) “la sua originaria efficacia e destinazione”.
Altri pensieri:
«L’attore è uno che si compromette» Giovanni Moretti
«La soluzione sempre fuori dal sistema» Gian Renzo Morteo
«L’attore è colui che ha un mondo; e poi è anche un attore» Carmelo Bene
***
Sono convinto che contino le azioni. E che solo se un’azione nasce da un’urgenza può sortire un effetto. Che preparare un’azione non significa prevedere ciò che faremo, bensì abbandonarsi a ciò che ci accadrà, per tentare di fare accadere qualcosa. Che ci si può allenare all’abbandono. Che occorre avere il coraggio di confondersi, di sperimentare avventura. Che un teatro possibile è quello di cittadini fra cittadini. Che proprio la creazione deve nutrirsi di provvisorietà. Che scegliendo con sana incoscienza spazi, modi e tempi apparentemente inopportuni, gli attori usano utile violenza a quello status civitatis che li fa cittadini maldestri fra un pubblico di uomini declassati e votati al silenzio: gli attori si possono fare artigiani di incontri. L’incontro è tanto più vero quanto più la sua provvisorietà è condivisa con il pubblico: si può provare a fare un teatro che nasca proprio dagli incontri, anziché pretendersi compiuto per affrontare incontri. Si può sperimentare un teatro che abbia il coraggio di mostrarsi “brutto”, perché sta tentando di avvenire. Si può, non “si deve”. La certezza di essere nel giusto è la nemica peggiore dell’avventura. Un teatro fatto con i gesti e con le parole incerte di chi abita uno spazio a lui nuovo, ma non essendo da solo ha bisogno di cercare mezzi utili a comunicare. Un teatro che ha come primo scopo quello di cercare un pubblico per tentare di accadere, divenendo. (Marco Gobetti)
Sono convinto che contino le azioni. E che solo se un’azione nasce da un’urgenza può sortire un effetto. Che preparare un’azione non significa prevedere ciò che faremo, bensì abbandonarsi a ciò che ci accadrà, per tentare di fare accadere qualcosa. Che ci si può allenare all’abbandono. Che occorre avere il coraggio di confondersi, di sperimentare avventura. Che un teatro possibile è quello di cittadini fra cittadini. Che proprio la creazione deve nutrirsi di provvisorietà. Che scegliendo con sana incoscienza spazi, modi e tempi apparentemente inopportuni, gli attori usano utile violenza a quello status civitatis che li fa cittadini maldestri fra un pubblico di uomini declassati e votati al silenzio: gli attori si possono fare artigiani di incontri. L’incontro è tanto più vero quanto più la sua provvisorietà è condivisa con il pubblico: si può provare a fare un teatro che nasca proprio dagli incontri, anziché pretendersi compiuto per affrontare incontri. Si può sperimentare un teatro che abbia il coraggio di mostrarsi “brutto”, perché sta tentando di avvenire. Si può, non “si deve”. La certezza di essere nel giusto è la nemica peggiore dell’avventura. Un teatro fatto con i gesti e con le parole incerte di chi abita uno spazio a lui nuovo, ma non essendo da solo ha bisogno di cercare mezzi utili a comunicare. Un teatro che ha come primo scopo quello di cercare un pubblico per tentare di accadere, divenendo. (Marco Gobetti)