Storyplaying

Un’idea di teatro e per un teatro che incida sul sistema sociale in cui opera, favorendo la nascita di un nuovo movimento culturale; un teatro che nasca dagli incontri, anziché pretendersi compiuto per affrontare incontri. Lo storyplaying non genererà mai “storyplayers”, depositari di una “tecnica”; ispirerà semmai l’azione di attrici e attori, pensatrici e pensatori, uomini e donne che, prima di tutto, pratichino provvisorietà e avventura per farsi operatori culturali.

In uno scritto di aprile 2020 (Quali attori e quali “teatri”? Storyplaying, per una contaminazione possibile. Con suggestioni da C. Bene, G. Moretti, G.R. Morteo) Marco Gobetti provava a ragionare sulle possibilità di contaminazione del sistema teatrale nel presente, mettendo a confronto fra loro alcune contaminazioni avvenute nel secolo scorso. Partiva da un’affermazione di Carmelo Bene (al Teatro Argentina di Roma, il 20 gennaio 1984, durante un seminario organizzato dal Centro Teatro Ateneo dell’Università “La Sapienza” diretto da Ferruccio Marotti) in risposta alla domanda di uno studente che citava, da La repubblica di Platone, un’invettiva contro i “pantomimi, così abili a imitare qualunque cosa”;  pantomimi che occorreva cacciare dalla repubblica, dove si dovevano accettare solo i “più aspri e severi poeti e cantori di storie”. La domanda si concludeva appunto con una richiesta a Carmelo Bene: gli si domandava se, in quanto attore, reputasse di avere diritto a “restare nella repubblica”.

Con la sua risposta, in primis, Carmelo Bene tocca un nervo del sistema teatrale che, allora come oggi è scoperto. È un sistema che, in modo variabile, ha incoraggiato e incoraggia il fiorire di “attori fini a se stessi”: il malanno sta – anche – nell’istituzionalizzazione del teatro, pratica utile a rigor di logica, visto che lo lega al servizio pubblico con cui lo Stato soddisfa bisogni della cittadinanza; ma che al contempo è dannosa per il teatro stesso, se recinta (quando non arrivi addirittura a castrare) ogni sua componente che vada a tangere i terreni del magico, dell’invisibile, dell’avventura, dell’irrazionalità, dell’empatia, di tutto ciò che superi il limite posto dai concetti di mera rappresentazione e di prodotto. Il teatro è innanzi tutto avvenimento e, in quanto tale, di volta in volta proficuamente caduco, carico d’altrove, intriso di provvisorietà e scevro di calcolo, oltre che di individualistici compiacimenti.

In secondo luogo, la risposta di Carmelo Bene è utile perché – nel sottolineare la responsabilità forte di chi lo fa, il teatro – dipinge un sistema che, pur affetto del malanno di cui sopra (esemplificabile con «l’attore fine a se stesso») risulta positivamente contaminato, quasi a macchia di leopardo, al suo interno; ed è contaminato da parte di attori che, sì, sono fra loro estremamente diversi (ciascuno ha chiaramente il suo teatro) ma che, tutti – stando al pensiero espresso da C.B. – sono compresi sotto un minimo comune denominatore: ognuno di loro «ha un mondo; E POI, è ANCHE un attore». E ancora: «Tutti costoro sono degli operatori culturali. Non attori», «Un’altra cultura», hanno «Un’idea di teatro». Il contrario, insomma dell’«attore fine a se stesso».

Nello scritto di Gobetti, prima di analizzare contaminazioni del sistema avvenute nel secolo scorso (attingendo soprattutto a pensieri e racconti di Gian Renzo Morteo e Giovanni Moretti), si puntualizzava cosa si possa intendere con il concetto di contaminazione del sistema: “un teatro” contamina il sistema entro cui avviene quando riconosce e affronta i rischi di snaturamento procurati dalle caratteristiche del sistema stesso, cercando di affermare con l’azione l’idea che lo muove, nonostante gli ostacoli che incontra; la contaminazione può essere, con tutte le possibili gradazioni intermedie, da inconsapevole a consapevole.

L’analisi dettagliata di alcune forme di contaminazione del sistema teatrale nel secolo scorso (dilettantismo-professionismo, decentramento, animazione, libera espressione…), evidenziava come questi “teatri” si fondassero soprattutto su un doppio principio essenziale: la dimensione dell’avventura e il raggiungimento della comunicazione tramite la frequentazione del linguaggio (teatri che non pretendano di essere compiuti per affrontare incontri, ma che si compiano tramite gli incontri); e portava infine ad affermare che:

– l’istituzionalizzazione delle esperienze teatrali rischia di castrarne anche le eventuali potenzialità contaminanti e di favorire e promuovere, nella maggior parte dei casi, l’attore che non ha un mondo, il mero esecutore, che non si domanda neppure quale cultura lo circondi;

– per altro verso, l’attore «che ha un mondo; e poi, è anche attore» riversa quel mondo nel “fare” il suo teatro, e viceversa; e se non si riconosce nel sistema e/o nel/nei movimenti culturali che lo circondano, sente il bisogno di creare un suo movimento culturale. E lo fa perché, sentendo di avere “un’altra cultura”, ne ha le capacità o comunque pratica con sana incoscienza l’utopia che lo porta a ottenerle. «È un operatore culturale» direbbe Carmelo Bene; «l’attore è uno che si compromette» direbbe Giovanni Moretti; «la soluzione sempre fuori dal sistema» direbbe Gian Renzo Morteo.

Per quanto riguarda l’oggi, possiamo individuare un “termometro di crisi”. Non è certo l’unico, ma ci limiteremo, qui, a esaminare questo. È annidato nel linguaggio.

Si fa grande uso, ovunque, del termine storytelling.

Nella voce dedicatagli dal vocabolario Treccani, lo storytelling è definito: “Affabulazione, arte di scrivere o raccontare storie catturando l’attenzione e l’interesse del pubblico”. Accompagnano poi la dicitura “Dall’ingl. storytelling (‘narrazione di storie’)”, alcune citazioni da testate nazionali, che ne attestano la diffusione sin dal 1990: diffusione che, se ci si attiene alla natura delle citazioni stesse, parrebbe doversi intendere limitata all’ambito teatrale o comunque strettamente spettacolare.

Che la narrazione, soprattutto orale, abbia a che fare con il teatro e lo spettacolo, d’altronde, è dato certo: la narrazione, in primis, incarna quella complessa elementarità che fa del teatro «la cellula primordiale dello spettacolo».

Digitando poi storytelling nei motori di ricerca più diffusi in rete, se ne trovano svariate definizioni, che tutte proprio rimandano all’atto del narrare, sia orale che scritto, con un focus particolare, però, sulla sua efficacia e sulle tecniche utilizzate per ottenerla; in percentuale, poi, abbondano i siti che lo abbinano ad attività di tipo industriale, dipingendo quella sua stessa efficacia come essenziale per accrescerne la resa, anche in termini commerciali.

Lo storytelling può farlo chiunque e può essere oggetto di scambi formativi aldilà degli ambiti artistici, parrebbe di capire. Che si tratti di una nuova forma di «libera espressione»? Non proprio. Negli ultimi tempi anche molti teatranti, soprattutto nelle loro proposte di corsi (ma anche nel caso di occasioni spettacolari), utilizzano il termine storytelling; e, già solo da un’indagine sommaria, balza agli occhi il fatto che, almeno nella maggior parte dei casi, provano semplicemente a “vendere tecniche”, spesso garantite come infallibili. Docenti specializzati e sicuri per formare infallibili specialisti del domani.

Possiamo ipotizzare che il potenziale venefico dell’istituzionalizzazione abbia fatto scuola e abbia instillato in ogni anello della catena sociale, culturale e industriale la vocazione a fare proliferare gli “attori fini a sé stessi”, in nome di un serissimo neoliberismo artistico.

Propongo, anch’io in modo serissimo, la sostituzione del vocabolo, laddove i fatti o le vocazioni ad agire lo permettano: storyplaying al posto di storytelling. Curiosamente e per ironia della sorte, il termine storyplaying si trova ora in rete riferito soprattutto ad applicazioni che fanno interagire lo storytelling con i videogiochi; noi intendiamo usarlo anche con altre accezioni, riferendoci per intero alla poli-semanticità del verbo “to play”.

Non si tratta solamente di trovare una tecnica utile a raccontare una storia, la storia e le storie: una modalità di racconto dall’”effetto garantito”. Si tratta di cercare, sì, “il modo per raccontare ed evocare – o far raccontare/evocare – le cose” (e in quest’affermazione, davvero, può rientrare qualunque categoria dello spettacolo e della formazione; e qualunque corrente o avventura culturale e artistica, qualunque), ma di farlo mediante una precisa assunzione di responsabilità, che ci spinga a investire in progetti cangianti, affetti da frenetiche pulsioni autorigeneranti e da un colorato erotismo libertario, nel quale confluiscano il teatro, le altre arti, la didattica, la storia e le scienze in genere.

Reti di azioni che, partendo da nuclei minimi di creazioni formalizzate, non siano totalmente tracciabili nell’avventuroso evolversi dei loro esiti: azioni anche istituzionali, ma mai “istituzionalizzate”, quindi difficilmente intaccabili in ogni loro componente che, in quanto intrecciata a esperienze teatrali, vada a tangere i terreni del magico, dell’invisibile, dell’avventura, dell’irrazionalità, dell’empatia, di tutto ciò che superi il limite posto dai concetti di mera rappresentazione, documentazione, resoconto e prodotto.

Nel nostro storyplaying occorrerebbero allora arcipelaghi contaminanti non mappabili, ma consapevoli e cercati. E non basati su capillarità geografica o su scambi produttivi/distributivi; ma sulla base di progettualità che promuovano autonomie interne e che facciano ciascuna capo a un movimento culturale condiviso, cercato o consolidato che sia (valgono, qui, tutte le fasi temporali intermedie).

In tali res publicae volatili dunque, gli operatori culturali, ancor prima della consapevolezza riguardo agli effetti possibili della propria azione contaminante, faranno valere la consapevolezza del proprio denominatore comune.

Nei “nuovi arcipelaghi” non basterà, insomma, la coscienza dei singoli riguardo alla capacità contaminante del loro «avere un mondo e poi» essere «anche attori»; gli arcipelaghi contaminanti varranno se ogni isola di ciascun arcipelago – e ogni nave che farà la spola fra loro – sarà forte di un minimo denominatore comune cercato che, noto a tutti gli attori, abbia la mobilità necessaria per rigenerarsi in continuazione e difendersi dai rischi dell’istituzionalizzazione: un movimento culturale condiviso e compartecipato, insomma.

Si tratta di elaborare idee per un teatro, o meglio per più teatri che assumano funzione contaminante e diventino strumento e motore di moti culturali ampli, eterogenei, avventurosi e trasversali: di intelligenti disordini; e di gettare le basi per la nascita di una nuova generazione di attrici e attori, che siano “allenati” all’avventura e che innervino il proprio percorso con nuove, sincere “idee di teatro”: frutto non certo di pretenziose ricette, ma di pratiche e pensieri autonomi.

Principi imprescindibili saranno la creazione (o l’integrazione, laddove se ne incontrino) di stabilità provvisorie e la valorizzazione delle autonomie e delle difficoltà, da trasformarsi in opportunità.

E se il termometro fosse fallace e non ci fosse alcuna crisi cui occorra reagire? Non importa, valgono anche le crisi sognate, se possono diventare opportunità di riflessione e trasformazione. Ipotesi di trasformazione. […]